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“La città dei ladri” intenerisce ed emoziona. Come non fare il tifo per Lev e Kolja?

  • Immagine del redattore: Elena Salata
    Elena Salata
  • 10 feb 2021
  • Tempo di lettura: 7 min



Questo libro è la risposta

̶ più che a un tedesco ̶

a un Americano immolato,

giunta, se non in tempo di guerra,

di pandemia.


Questa è la dedica che potrebbe contenere il frontespizio de La città dei ladri di David Benioff: quello regalato da un amico al suo amico, per un drink offerto. Rosso il drink, rosso il primo amico, zona rossa anche l’indirizzo a cui è arrivato il libro ̶ di questi tempi.

Io li conosco entrambi, quei due, e per questo il libro è capitato nelle mie mani. E così mi sono voluta intromettere nei loro affari con questa epigrafe inventata e le mie considerazioni a fine lettura.


Perciò passo a parlarne, senza indugio, che il primo pensiero ad appollaiarsi sul filo del mio discorso ce l’ho già in equilibrio.

Questo è un romanzo per cui vorrei andare al cinema. Ne avrei davvero moltissima voglia.

Ben diverso da: ho letto il libro, scopro che ne fanno il film, e allora… “Ah forte, lo vado a vedere”.

Inoltre, concesso che non si tratta né di un thriller, di un fantasy o di un fantascientifico, il riflesso non viene affatto da sé. E poi c’è la questione che mi è piaciuto, come libro, per cui davvero non rientra nemmeno in quella casistica per la quale, leggendo, mi vien da pensare “Sarebbe stato, più che altro, un discreto film”.

Vorrei vederne il film per prolungare una bella sensazione che mi ha lasciato. Come quando alla mattina si interrompe un sogno d’irresistibile dolcezza e allora si cerca a tutti i costi di indursi di nuovo al sonno per continuarlo.

Così La città dei ladri di David Benioff è un libro che ti infonde un senso di avvolgente tenerezza, calore e vitalità. Belle sensazioni insomma, che vorresti tener vegete il più a lungo possibile.

Di fatto, non a caso, si tratta di una storia di avventura e amicizia (dentro e fuori un’ex Leningrado sotto assedio, in epoca di guerra mondiale), l’una indispensabile all’altra e viceversa. Due ingredienti ̶ e ben congeniati, che fanno immediatamente presa sul nostro io più bambino, lo risvegliano e ne innescano l’esplosiva carica di entusiasmo, passione ed empatia di cui è capace.

Per cui ti ritrovi a marciare insieme a loro, ai due giovani protagonisti: “l’ebreo” e “il cosacco”. Ad emozionarti di fronte alle loro piccole e grandi imprese, a sorridere complice dell’uno o dell’altro alle loro battute, gesti e comportamenti, nel gioco di una condivisione indimenticabile.

Insomma ti verrebbe proprio voglia di conoscerla per davvero quella coppia, di farci amicizia o quanto meno di incrociarla dal vivo, appagando o contrariando la nostra fantasia, che come un computer della CIA, ha lavorato incessantemente ai prototipi visuali dei due soggetti. E un film a questo punto farebbe ulteriormente al caso nostro, se nel frattempo non si ha avuto l’ardire (come ho fatto io) di appioppare le sembianze letterarie di Lev e Kolja a qualcuno di familiare. Ma per quello è sempre bello avere più opzioni e non arrendersi al primo risultato.

Detto ciò, tuttavia, è giusto specificare un aspetto, del romanzo, per cui tutto quello che ho espresso fin’ora è il risultante di un cammino lungo una prima buona manciata di pagine.

Traducendolo in termini più personali, posso dire che fino a un primo quarto di lettura non ero particolarmente rapita. Questo anche in luce di un certo scetticismo radical che mi appartiene ad ogni primo approccio con il testo. Ma ̶ questa volta mi sono data delle attenuanti ̶ credo si tratti soprattutto di una fisionomia propria alla narrazione di Benioff.

Quel bel tipo che è l’autore (e lo è davvero! Per chi avesse voglia, val la pena di approfondire oltre alla foto con bio di retrocopertina) non si sbraca ad abbracciarti subito o ad agguantarti per un vorticoso tango vals argentino, ma preferisce raccoglierti dolcemente la mano per condurti con sé passo passo.

Perciò ti include solo un po’ alla volta nell’intesa tra i due protagonisti e nel vivo della loro vicenda. E d’altra parte anche questi ultimi trovano una completa emancipazione sul piano umano solo in rapporto l’uno all’altro. Lev e Kolja sono due personaggi in divenire, che acquistano profondità e spessore nell’arco del loro incontro.

Per spiegarmi, all’inizio l’impressione è quella di incrociare per lo più due tipi: l’adolescente cocciuto e lo spaccone scanzonato (anche se l’adolescente, che è Lev, trovandosi ad essere anche voce narrante, ha la grazia di risultare subito più sfaccettato e tridimensione di Kolja). Il secondo, invece, di prima battuta, ci fa l’occhiolino della macchietta, che subentra con un po’ di verve da palcoscenico e qualche mossa acrobatica.

Ma queste prime impressioni si ammanteranno mano a mano di un retroscena pieno di spessore, forza e umanità, alla scoperta di un personaggio di cui in definitiva ci affezioniamo con tutto il cuore.

E Lev dal canto suo ci prende sempre di più a far parte di una personale soggettività davvero interessante, piena di intelligenza, intuito e sensibilità.

Ma qui non termina la mia disquisizione, perché ad investire gli attori protagonisti della loro forza comunicativa esistono anche un’ambientazione dal piglio avvincente ed immersivo, talento diagnosticato per uno scrittore che è poi sceneggiatore e produttore televisivo di successo (e qui rimando sempre alla vostra iniziativa per saperne di più), e, quel che più mi interessa, un tipo di scrittura che, pur non distinguendosi per rilevante cifra stilistica, trova la sua chiave mettendosi al servizio del resto.

Sull’ambientazione spendo poche parole, ma basti dire che il simulatore di carta di Benioff ti trasporta in una città russa morsa dallo spietato assedio nazista, dove una misurata toponomastica dentro e fuori dalle mura aiuta a mettere a fuoco, per lasciare poi libero spazio all’abile ricreazione di un certo clima. E infatti insieme ai protagonisti ci sembra di respirare la polvere delle macerie e incamerare gli acri odori di una disperata lotta per la sopravvivenza, fin’anche percepire l’implacabile fame e l’atroce freddo che non li abbandona mai.

E per ottenere ciò l’autore procede con uno stile piano e diretto, costruito su un incedere principalmente dialogato, limitando le note descrittive alle sole osservazioni di Lev… ma, per fortuna, il ragazzo è un tipo interessante, come ho già detto! Ed è infatti degno, per mano del suo demiurgo, di pronunciarsi anche in considerazioni non prive di una certa originalità e destrezza espressiva.

E tra queste scoviamo allora alcune modalità stilistiche che si ripropongono, come repertorio di una peculiare andatura linguistica del personaggio… ma che, alla fine, mi sembrano anche appartenere naturalmente alla penna di Benioff (e per buon grado di filologia, passerò a leggere anche La venticinquesima ora per scoprire se ho ragione. In caso contrario, vi darò notizie).

La prima è quella che ho definito della “metafora prosaica” (e includo dentro anche la similitudine, per onor del rispetto alle figure retoriche), cioè quella tendenza della voce narrante al comparare un aspetto della realtà esteriore o una caratteristica psichica individuale a un’immagine decisamente prosaica e antipoetica. Lev ne è indiscutibile maestro. Ad esempio per tutte: «… non capivo come un uomo –un uomo intelligente e testardo ̶ potesse cessare di esistere solo per lo schiocco delle dita di un invisibile burocrate, come se non fosse altro che il fumo di una sigaretta soffiato da una sentinella annoiata su una torretta di controllo in Siberia…»

Ma la “metafora prosaica” trova presto il suo controcanto, per cui non mancano nemmeno le personificazioni (come quella che apre la narrazione, dove il vento si muove come un predatore), che mantengono comunque l’utilizzo di personificanti di solida plasticità e immediatezza comunicativa.

E l’immediatezza comunicativa, tanta immediatezza comunicativa, la troviamo soprattutto nell’ultimo leitmotiv di registro che ci tenevo ad inquadrare. Questa volta, tipico in particolare di Kolja, che pareggia 1-1 con Lev, sfruttando le battute che gli vengono assegnate. E dunque il focus su una corporalità stringente e cruda, espressa senza mezzi termini, con inflessione spedita, decisa e dunque con assicurato effetto volgare.

Ma qui lo scrittore si è fatto furbo perché a ben guardare la cosa rivela un più nobile scopo. E in effetti l’esasperata attenzione alle necessità fisiologiche del corpo racconta con fedele eloquenza di una condizione estrema: quella della guerra, e, prima ancora, quella della lotta per la vita. Dove tutto ciò che i personaggi provano o percepiscono viene codificato prima attraverso mordaci sensazioni fisiche, quelle di un apparato senza difese, al limite della sua resistenza.

E allora chapeau a Benioff che modula la scrittura a favore di una più compresa partecipazione del lettore!

Ma il punto decisivo per me se lo guadagna in tutt’altro modo… e lo fa con un breve passo che se vogliamo si discosta da tutto il resto del formulato: la descrizione di un salotto letterario.

Questa parentesi di una pagina che si trova infilata senza preavviso nel pieno dello sviluppo d’azione mi ha regalato una gioia inattesa. Ed è qui, nel ritratto di una ritualità, di un costume e dei tic di una categoria sociale quanto umana (scrittori, poeti e intellettuali) che Benioff tira fuori la stoffa di una penna, volendo, più complessa, galoppante ed elaborata.

Perché, certo, dialoghi incisivi, personalità avvincenti, ripresa incalzante: tutti punti a favore di una narrazione brillante… ma io credo che la letteratura conosca anche un altro genere di talento e che appartiene per me a tutti i più grandi, quello della ritrattistica d’insieme. E ovviamente la modalità di espressione che ne segue.

Allora mi piace concludere questo mio fin troppo lungo resoconto con una riflessione aperta, di quelle che magari mi capita di ospitare in gabbia solo io (per chiudere il cerchio della metafora dei miei pensieri come passerotti), ma che in ogni caso mi sento pronta a condividere con chi è durato fin qui.

Se le scelte esecutive di uno scrittore vanno ovviamente a comporre il suo profilo d’artista, ma ci fosse domandato di individuare un minuscolo estratto di testo per far indovinare la sua firma poetica, cosa sceglieremmo? Sarebbe uno scambio di battute di un discorso diretto (magari sì…), l’accorpamento di enunciati funzionali a riprodurre un picco d’azione (potrebbe essere funzionale quanto originale, perché no?) o alcune righe di libera descrizione?

Io propendo, per la maggior parte dei casi, per l’ultima opzione.


 
 
 

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