Ai suoi “testamenti” rivediamo il primo “racconto” (dell’ancella)
- Elena Salata
- 20 set 2019
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 30 mar 2020

Proprio in queste prime settimane dall’uscita in Italia dell’attesissimo I Testamenti di Margaret Atwood (per Ponte alle Grazie, ça va sans dire), sospirato seguito dell’acclamato Il racconto dell’ancella ̶ romanzo dell’85 che ha trovato una sua memorabile seconda vita, dando forma alla serie tv del 2017 “The Handmaid’s Taile” ̶ eccomi invece a proporvi una mia recensione (a posteriori) che riguarda precisamente il primo romanzo.
Scelta naif se vogliamo, dal momento che credo rimangano davvero poche persone (lettrici) che non abbiano ancora consumato Il racconto dell’ancella, o, tra le altre, che non abbiano già visto almeno la prima stagione della serie tv, riproposizione compiuta dell’intero romanzo. E scelta ancor più curiosa, se si pensa poi, che al momento di questa recensione, non avevo ancora visto la versione a schermo.
Ma mi piace proprio l’idea di offrirvi qualcosa di felicemente anacronistico nella sua “purezza”, che possa magari farvi riflettere su alcuni aspetti della vostra lettura, prima di accingervi in libreria ad acquistarne il seguito o che possa semplicemente invogliare chi avesse goduto solo della versione recitata a fare anche lui un salto in libreria!
Il racconto dell’ancella della Atwood è catalogabile entro i confini del genere fantascientifico, per meglio dire, distopico. Inscena una possibile realtà futura, immaginifico approdo della temibile evoluzione di alcuni aspetti critici della realtà attuale (è una provocazione che dovrebbe trovare risposta proprio ai giorni nostri, considerato che il testo è stato redatto più di trent’anni fa!).
Siamo negli Stati Uniti, dopo le devastazioni delle esplosioni atomiche. Poche sono le donne rimaste fertili nonostante le contaminazioni radioattive: a loro è assegnato il compito di garantire la prosecuzione della specie della classe dirigente. In un regime totalitario, d’impostazione patriarcale, ognuna di queste donne, le “Ancelle”, dopo aver subìto un feroce indottrinamento, viene assegnata ad un “Comandante”, per il quale dovrà adempiere agli obblighi che le impone il suo ruolo.
Questa è anche l’attuale condizione della protagonista narrante, che, nella descrizione del suo quotidiano ̶ alternata a spazi di ricordo di una passata normalità ̶ ci fa ricostruire a poco a poco il quadro di un sistema sociale profondamente cruento, sadico e repressivo.
Lo scenario che in questo modo disegna l’autrice è estremamente convincente, originale e articolato. Le categorie sociali nelle quali sono rigorosamente suddivise le donne (Mogli, Marte, Zie, Ancelle, Economogli e Nondonne), i frammenti dei sermoni proferiti dalle Zie, le nomenclature dei luoghi, i neologismi che descrivono un gergo, una propaganda politica e particolari ritualità messe in atto dallo stato di potere, il tutto riportato con efficacia e coerenza.
È un romanzo che a partire da questa prerogativa sembra essere stato in qualche modo, se non consapevolmente destinato ad una versione filmica, realizzato assecondando una costruzione inventiva fatta di immagini. Questo, a partire anche dall’ “iconografia” così nitida della protagonista, l’Ancella, con il suo portamento e la sua divisa ben riconoscibili, l’abito lungo e accollato rosso sangue accompagnato al rigido copricapo bianco con le alette paraocchi.
La Atwood costruisce infatti un personaggio, che pur dietro il velo del soggettivismo della narrazione in prima persona, si distingue prima di tutto per la sua estetica ben definita e vivida.
Un’eroina che si impone al lettore per il suo status quo così paradossale e terribile, stigmatizzato da un aspetto talmente preciso, non può che rimanere impressa e fomentare un’immaginazione attiva: leggere allora equivale quasi ad assistere ad una rappresentazione scenica.
Ma se il materiale per la scenografia è così presente, è un libro che, fino a buona parte della sua lunghezza, manca quasi di intreccio. La narrazione di Difred (nome assegnatale dal “Sistema” come Ancella del Comandante Fred, e significativamente il solo nome pronunciato per il personaggio) si concentra sulla descrizione della sua realtà rutinaria presente: la solitudine della stanza in cui è confinata, le contrite interazioni con gli abitanti della casa del Comandante, le brevi e programmate passeggiate per la città in compagnia di un’altra Ancella, corredate del dettaglio inquietante della visione del Muro, parete d’esposizione per i cadaveri dei dissidenti.
Solo a mano a mano alcuni significativi cambiamenti nelle relazioni intrattenute dalla protagonista con i soggetti circostanti vengono a rompere la monotonia del suo train de vie, fino ad innescare un rapido decorrere verso un possibile radicale cambio di condizione, ma inaugurato solo da un finale lasciato volutamente aperto.
Mentre ad interrompere di tanto in tanto il resoconto del presente narrativo, si inseriscono degli spezzoni di ricordo da parte della protagonista. Sono episodi vissuti in un tempo precedente: quello propriamente dove si può dire sia avvenuto tutto. Le prime avvisaglie della deprivazione dei diritti delle donne, l’aumentare del pericolo discriminatorio, il radicalizzarsi del vivere sociale, la tentata fuga per la libertà, e infine la cattura e la leva d’ammaestramento per divenire Ancella.
Ed eccoci io credo all’aspetto che segna più di tutti l’originalità della stesura romanzesca e la capacità di questo libro di far riflettere oltre che immaginare: proprio la scelta di relegare l’effettivo nucleo dell’azione in alcune parentesi di memoria. Atwood sceglie di parlare della “stasi”, quel vuoto d’azione tra uno sconvolgimento esistenziale e un nuovo successivo verosimile risvolto.
A ciò si accompagna una scrittura che tende a dipanarsi in forma piana e descrittiva, anche se sempre incanalata nel soggettivismo dell’io narrante, per lo più volta alla testimonianza di una situazione vissuta. Una scelta stilistica della Atwood, il cui talento in questo racconto credo risieda infatti più nelle componenti strutturali e d’invenzione messe in luce fin’ora.
Ma, detto questo, non posso fare a meno di confessare d’aver particolarmente gradito che qualche passo fosse furtivamente sfuggito a quest’esigenza primaria della sua autrice, per lasciar libero spazio al semplice piacere dello scrivere.
E così nella mantenuta credibilità e spessore di personaggio attante, all’Ancella è anche permesso di farsi riconoscere a più riprese come portavoce della notevole cifra poetica della scrittrice.
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