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“La donna dei fiori di carta”, il piacere all’ascolto oltre la distorsione professionale

  • Immagine del redattore: Elena Salata
    Elena Salata
  • 30 mar 2020
  • Tempo di lettura: 5 min


Con un piglio un po’ alla Baricco, per certi versi, anche se con una parola più piana e funzionale. Ecco la mia perentorietà a bruciapelo, chiuso il retro copertina, rifilata per messaggio alla proprietaria del libro. Che peraltro è amica mia, che peraltro me l’ha prestato con la sola gentile premessa di una lettura a lei particolarmente cara, nulla più.

Ho poi aggiunto: Questo vuol dire che mi è piaciuto! con uno smile. Tanto per precisare.


In effetti ̶ l’immediatezza mi fa antipatica ma sincera ̶ è quello che penso. Voglio dire, volendo stigmatizzare in maniera ancora più scoperta, La donna dei fiori di carta di Donato Carrisi mi è sembrata una storia alla Baricco, con dei personaggi elegantemente eccentrici alla Baricco, in un’ambientazione che ama la Parigi di Proust e una vocazione (per questo, di entrambi gli scrittori) al fotogramma poetico. Allora, niente da dire, per questi aspetti indubbiamente un libro che mi è piaciuto.

Questo è un romanzo breve, o un racconto lungo, come si preferisce, che racchiude una storia.

Il tutto parte dal meccanismo del racconto nel racconto, quello di un prigioniero misterioso, diretto al dottor Jacob Roumann, dottore di guerra, in trincea, Prima guerra mondiale.

Il personaggio del dottore è il protagonista del romanzo, ma è soprattutto l’Interlocutore della storia.

E quella che, con i dovuti preamboli, è appunto una storia dai connotati decisamente affascinanti, favolosi e poetici, incentrata su un personaggio singolare, Guzman, e costellata da altri personaggi di magnetica stravaganza.

A carellata, Madame Li di maestosa bellezza orientale, l’ermafrodito detentore di tutti i peccati dei marsigliesi, Dardamel il malinconico musicista inventore (e Pekish di Castelli di rabbia è, almeno per me, tra le varie suggestioni), l’emancipazione e la vitalità di Eva Mòlnar, vissuta nobildonna scalatrice, il capitano Rabes e il suo prezioso sigaro per salutare la morte.

A margine, poi, i due altri personaggi cardine della vicenda di Guzman, quelli che rappresentano amore e promessa: Isabel e Davì.

Con questi ultimi, si compone il polittico dei protagonisti dell’intero romanzo, la cui conoscenza, di quasi tutti, la facciamo anche al di fuori della storia, nel racconto (quello extradiegetico).

Allora, del dottore ho già accennato, ma è giusto ribadire che la sua funzione è quella di depositario della narrazione e consacratore della memoria ai vivi. Per questo è un carattere più ordinario che straordinario, ma ad ogni modo dotato di grande nobiltà d’animo e sensibilità umana.

Per gli altri, invece, la statura è quella di uomini (e donna) eccezionali, dai tratti unici e dalla personalità indimenticabile. Si muovono con grande carisma, passione e spirito.

Isabel: la descrizione compiuta a pagina 138 (per voce di chi la amerà per secondo), ma di lei già si erano intuiti il fascino indomabile, la prontezza di spirito, l’amore per la libertà e l’energia ribelle, oltre che la celebre bellezza.

Poi abbiamo Davì, perfetta immagine del nobile dandy, viveur incallito, pieno di verve, irriverente charme e ironia. Figura ambivalente, però –divisa in due “atti”– ma basti dire che alla fine è legittimata per coraggio ed eroicità nella volontà di morire in nome della fedeltà.

E infine Guzman. La star del racconto, l’epicentro dell’intreccio. Per lui faccio a meno questa volta di indicare un parente in Baricco (Novecento, intendo), perché finirei per apparire un po’ complottista, per cui mi limito al mito: Guzman, un Odisseo tabagista. Dalla splendida capacità affabulatrice e amore per il raccontare, vivacemente curioso, di grandiosa adattabilità ed innato senso del poetico.

Se poi vogliamo aggiungere, per il compiacimento d’aver tirato in ballo qui Omero, pure: basso, non di gran bell’aspetto, ma assolutamente confidente nelle proprie capacità intellettive-inventive, attraverso le quali si procaccia perfino l’amore.

Però se Davì è eroe decadente, Guzman è del tutto romantico. A ognuno il suo, del resto.

E al di là delle reminiscenze possibili, in ogni caso, sono tutti personaggi di cui è davvero piacevole sentir parlare, dipinti con una certa disinvoltura dall’autore.

Per cui vengo alla scrittura, di Carrisi. Giallista italiano di successo, oltre che giornalista, sceneggiatore, drammaturgo eccetera eccetera.

Dice in un’intervista de Il Librario d’aver scritto questo libro nella sfida (lanciatogli da un giornalista) di applicare le regole del thriller ad una storia diversa, intendendo “non di genere”, ma per esempio, d’amore.

E in effetti, visto che è dichiarato l’intento, mi sento libera di dire che, di retrogusto, lasciando sedimentare un attimo la lettura, in qualche modo si avverte l’esercizio di stile.

La scrittura, certo, è elegante, pulita, gentile. Le immagini sono nitide e definite con calibro, ma il procedere, la struttura e certi incisi tradiscono lo sforzo.

Gli incisi di cui parlo sono tipo questi: «non immaginava che da lì a poco sarebbe cambiata la sua, di vita», «a pochi minuti dall’evento che avrebbe cambiato tutto». Iniezioni enfatiche, per creare suspence e, mi pare, piuttosto tipiche della prosa in giallo (per quanto non ne sia una lettrice esperta). Insomma il breve accompagnamento musicale che anticipa lo svolgersi di qualcosa di importante, per dirla con il linguaggio del cinema.

Tic tipici di chi impugna la penna come scrittore di thriller e qui inseriti probabilmente con una serena consapevolezza, ma del tutto inutili secondo me nel volo di un racconto dove la prosa è cesellata in maniera volutamente elegante e poetica.

Dettagli infimi, ma piccolezze su cui, nel perimetro di poco più di un centinaio di pagine, avrei preferito non inciampare qualche passo.

Per me il segreto, e non di genere, è sempre questo: lasciare che la storia in definitiva esprima da sola la propria forza poetica, profondità e intenzione. Basta (si fa per dire) leggerezza e spontaneità, tocchi lievi e agili perché ogni scena vibri da sé, più forte e sincera, senza leggibile impegno.

Ma a parte questo, davvero si coglie un certo tipo di atteggiamento studiato da Carrisi, e quella che si potrebbe chiamare la sua “distorsione professionale” affiora a più riprese. Non che la cosa comprometta in assoluto la qualità del romanzo, ma credo che ne faccia svaporare un po’ l’effetto poetico.

A partire dalla condizione delle tre domande iniziali. Chi è Guzman? Chi sono io? E chi era l’uomo che fumava sul Titanic? Affascinante apertura del racconto, ma che tanto rimanda all’avviluppo di un’indagine, senza escludere quelle più classiche, perché anche in Christie e Doyle non manca l’aggancio con gli interrogativi a cui rispondere per risolvere il caso.

Se si pensa, certo i gialli sono libri interattivi, nella forma in cui inducono il lettore a interpretare la parte del detective lui stesso, facendo supposizioni, sulla base di quello che ha letto fino a quel momento. Ma sono in questo modo anche libri-tiranni perché indicano precisamente al lettore qual è il tipo di interazione che si richiede: sospetto e curiosità.

E allora trovo invece più interessante da parte di Carrisi la scelta di un incipit, dove viene espresso, in forma cristallina e asciutta, l’innesto di scrittura: la suggestione di una storia ̶ l’uomo che fuma mentre affonda il Titanic ̶ che lo ha portato a elaborare il suo romanzo. Ovvero la sua personale ricerca, e non per forza quella del lettore. E quest’ultimo lo sa con anticipo, così può abbandonarsi alla sua, di sensibilità.

Perché ad ogni modo la lettura che regala questo libro è coinvolgente (senz’essere ossessivamente avvincente), sospesa e assaporata, capace di infondere un piacere quasi sinestetico per un’atmosfera, un immaginario, una scenografia, che si riverbera, anche a libro già terminato, in un caleidoscopio di affascinanti impressioni.




 
 
 

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